Nel corso della mia scellerata vita è capitato che qualcuno mi dicesse che sono un soggetto difficile da decriptare, una tipa che non si capisce bene se c’è oppure se ci fa. Questo perché sarei troppo modesta o, peggio ancora, sarei una falsa modesta. Partendo
dal presupposto che la modestia è una dote che si acquisisce per diritto di nascita o, forse nel mio caso, è un qualcosa che la famiglia riesce a inculcarti, volente o nolente, difficilmente è
possibile costruirla a tavolino né, tantomeno, ostentarla per un rendiconto personale. Quindi rispondo a tutti quelli che dovessero avere questo dubbio che no, non “ci faccio” affatto. Il
discorso è un attimo più complesso.
Nella mia famiglia d’origine essere consapevole dei propri meriti
era IL MALE ASSOLUTO. Quindi: testa bassa, non azzardarti mai, neppure per errore, a dire che sai fare bene qualcosa. Aspetta che siano gli altri a dirtelo. Come concetto non lo considero
sbagliato, tant’è che cerco di trasmetterlo a mio figlio, un tipino che di deficienze ne accusa diverse, come tutti noi, ma non è davvero carente di autostima.
Quello che trovo concettualmente errato è la convinzione che un
genitore non debba mai elogiare il proprio figlio e, se proprio deve farlo, mai in toni troppo entusiastici. Questo, perlomeno, era ciò che avveniva in casa mia. E la faccenda non è che mi
regalasse poderose iniezioni di autostima.
Un piccolo esempio? Mio padre. Se gli portavo a casa un bell’ otto
su un compito in classe, la sua risposta standard era: “Non potevi prendere nove?”
Se gli portavo un nove, replicava: “Ma non potevi prendere
dieci?”
E se finalmente esibivo il mio bel dieci, era capace di dirmi:
“Brava, capocciò. Hai fatto il tuo dovere, ma non potevi prendere undici?”
“Papà, l’undici non esiste.”
“Dettagli…”
Poi, magari, ascoltando una conversazione di straforo, sentivo i
miei vantarsi (ma sempre in modo discreto eh! Perché non bisogna mai e poi mai elogiare i propri figli, pena l’autocombustione spontanea) di quanto
fossi diligente a scuola oppure brillante, originale, disinvolta ed estroversa nei rapporti interpersonali. Allora perché non me lo dicevano quasi mai? Per ottemperare alla preistorica regola de
“i figli si baciano solo mentre dormono?”. Ora non voglio dipingerveli come due genitori insensibili e incapaci di donare affetto, perché a modo loro sono riusciti comunque a dispensarmene un bel
po’. Magari dispersa fra le righe, magari non sempre quando e come avrei voluto, magari tramite messaggi in codice, magari mascherata da scappellotto, però la tenerezza non mi è mancata.
Probabilmente quella troppo esigente ero io, che continuavo a
spingermi oltre i miei limiti pur di compiacerli, ma senza per questo ottenere mai un entusiastico: “Brava! Sono davvero orgoglioso/a di te!”. Io ero moderatamente consapevole delle mie
qualità però anche assetata di conferme, come qualsiasi neonato/bambino/adolescente e anche, perché no, adulto che si rispetti. L’autostima si alimenta dei giudizi positivi degli altri,
mi duole ammetterlo però è (quasi) sempre così.
No, a parere dei miei, io dovevo essere modesta di default,
ringraziare educatamente il latore del complimento e poi schernirmi. Sempre. Perché quell’apprezzamento me lo meritavo, ma non era davvero il caso compiacersene. Nella vita bisogna essere sempre
modesti. Sempre.
Non si accorgevano, però, che io la mia bella porzione di modestia
ce l’avevo già fin dalla nascita, non era affatto necessario rinforzare la dose. Non era necessario a chi mi rivolgeva quel complimento (perché alla fine, davvero, si chiedeva: ma questa c’è, oppure ce fa?”) e soprattutto non era necessario alla mia autostima, che aveva già subito diversi tentativi di omicidio da quella parte di me
che mi portava a imbarazzarmi violentemente quando qualcuno mi riconosceva un merito.
La modestia ha ucciso per un lungo periodo la mia autostima; non
dico totalmente, ma per un ricco 50% sì. Per il resto, ci hanno pensato i miei genitori a darle il colpo di grazia. Ma poi, visto che invecchiando o si matura o si rincretinisce, ho imparato a
dosare meglio la mia umiltà, a rivalutare un po’ la mia autostima e a mixare tutto in dosi grossomodo equilibrate. Ecco perché oggi la mia autostima e la modestia vanno più o meno serenamente a
braccetto. Diciamo che ho la tendenza a dimenticare ciò che mi riesce meglio. Non lo faccio apposta, spesso me lo dimentico e basta.
Il risultato è che gioisco per qualsiasi
commento/recensione/riflessione positiva su ciò che partorisco e ringrazio con sincero stupore chiunque mi faccia un complimento anche se so (ed eccola qual è la novità rispetto a quando ero una
bambina sempre in cerca di conferme ) che me lo merito. Lo so in un modo che qualcuno giudicherebbe “sottotono” oppure “falsamente modesto”, ma francamente me ne frego, e pure parecchio. Io sono
così. La mia tendenza istintiva (o indotta dai miei genitori, questo non posso saperlo perché mica faccio la psicologa) a schernirmi o sottovalutarmi non spegne i miei desideri, casomai li
alimenta. Non mi rende falsa, ma poco incline all’autocelebrazione.
Il punto è che ciascuno di noi sa fare bene delle cose
naturalmente, senza averle in qualche modo conquistate. Saper disegnare, ad esempio, o riuscire a strappare un sorriso. Saper costruire frasi di senso più o meno compiuto, per dirne
un’altra, oppure piantare alla meglio e peggio un rametto e, dopo qualche giorno, al suo posto ritrovare un rigoglioso baobab. Queste sono tutte cose che in qualche modo ho sempre saputo fare, le
respiro dalla nascita. Ecco perché mi dimentico di possedere certe qualità, ed ecco perché mi stupisco quando qualcuno mi fa notare che alcune cose mi riescono bene.
La differenza fra uno che soffre di un eccesso di autostima e uno
che invece possiede semplicemente autostima è proprio questa: il primo non dimentica mai i suoi meriti e non perde occasione per ricordarli anche a te, il secondo li respira naturalmente. Ci
convive così come farebbe con il colore dei suoi capelli o dei suoi occhi. Se poi, putacaso, quegli occhi sono di un rarissimo colore viola e i capelli rosso tiziano naturalmente mesciato con
tutte le sfumature delle castagne mature per carità, ben venga! Ma non è che il possessore di tali meraviglie può fracassare perennemente l’anima al prossimo con lo sfoggio delle sue
beltà. Non serve. Gli altri se ne accorgono comunque, a patto di possedere un apparato visivo. Quella non è autostima; è rompere i coglioni all'umanità. Il che, a occhio e croce, non è
mai cosa buona e giusta.
Chiamatela modestia, o umiltà, o come meglio vi aggrada. Fate
vobis. Il fatto è che ridimensionare le mie abilità nella misura che io reputo giusta (ognuno ha la sua, ovviamente, poi errori nei dosaggi li commettono persino i medici con i farmaci salvavita,
figuriamoci se non posso farne io) non mi tarpa le ali, piuttosto le affina facendomi volare più in alto. La modestia non è invischiata di ipocrisia, ma di assennato realismo. Insaporisce tutto
ciò che faccio e mi fa sognare decisamente più della vanagloria.
Essere umili non significa non coltivare aspirazioni o progetti,
equivale semplicemente all’essere grati con tutto il cuore a chiunque ti dica che sai fare qualcosa di utile, buono, intelligente e stupirsene sempre, anche se quel complimento è già la
milionesima volta che te lo fanno. Quando qualcuno mi riconosce un merito per me è sempre una gioia che mi sorprende in modo positivo e pulito. Poi ( molto poi ) mi “ricordo” che magari
quella cosa la so fare sul serio, altrimenti nessuno direbbe che mi riesce bene. O no?
Magari è semplicistica come analisi, ma è questo il mio rapporto
con l’autostima. Forse qualcuno continuerà a pensare che “ci faccio” visto che ho arditamente dichiarato di essere modesta, il che nell’immaginario collettivo corrisponde a non esserlo affatto.
Pazienza, correrò il rischio; soprattutto negli ultimi tempi ne ho affrontati diversi e decisamente più pericolosi di questo.
Questo post partecipa al blogstorming autostima
PS: La mia esperienza di autostima come mamma? Completamente
stroncata dal fastidioso contorno di parenti/amici/vicini di casa/semplici curiosi perché non riuscivo a gestire bene un figlio piuttosto “complicato”, ma queste simpatiche canaglie sono riuscite
ad annientarmi per un periodo di tempo tutto sommato breve. Pian piano mi sono resa conto che del loro giudizio potevo anche allegramente fregarmene e che, come diceva Donald Woods Winnicott (pace all’anima sua) potevo
accontentarmi di essere “una mamma sufficientemente buona” e sarei vissuta per sempre felice e contenta. Così faccio, più o meno. Qualche comprensibile ricaduta ce l’ho, perché non esiste al
mondo condizione capace di minare l’autostima più dell’essere genitore.