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30 novembre 2012 5 30 /11 /novembre /2012 18:30

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Il bambinese è una sorta di magico tessuto che si estende, si modifica, cresce e calza sempre a pennello il legittimo possessore. E’ una lingua unica nel suo genere, perché nessun bimbo veste la stessa stoffa. Soltanto la mamma di un bimbo che balbetta il suono gutturale “nghà”, simile al grugnito del tasso abruzzese durante la stagione dell’accoppiamento, riesce a leggervi questo pensiero: Orsù dunque, madre, disfati immantinentemente dello zuccotto celestino con i pupazzetti di Peppa Pig. Ritengo che insistere oltremisura nell’infilarmelo sia ormai anacronistico: ho ben 19 mesi, quel ridicolo orpello lede la mia dignità!”

Il mammese, invece, costituisce un optional di serie gentilmente offerto dalla maternità, meno avvilente delle emorroidi e dei seni cadenti, ma preoccupante almeno quanto la perdita di memoria a breve scadenza. A differenza del bambinese, in genere pecca di inventiva caratterizzato com’è da autentici must come: “Mio figlio non MI mangia…” (eccola qui, la madre del cannibale ) con variabili quali: “Mio figlio non MI dorme… per poi passare all’inquietante ossimoro: “Amoooreee! Corri lentamente, ché hai il filo della piantana arrotolato intorno alla gamba!” arrivando ad un creativo: “Strilla piano, tesoro, ché se il vicino chiama di nuovo il Telefono Azzurro, stavolta non ci credono più che nessuno ti spegne le sigarette sulle cosce” e concludendo con il surreale: “Stai fermo, vieni qui!”, frase che fulminerebbe i neuroni anche al più equilibrato dei pargoli.


Le storpiature dialettali, poi, meritano una trattazione a parte. Eccovi una chicca tipica di chi vive all’ombra del Colosseo. La frase basica dovrebbe essere questa: “Vuoi la pizza, amore di mamma?” ma, a causa della proverbiale pigrizia linguistica dei capitolini, si trasforma in: “Vuoi la pizza, 'a mamma?” per poi sfociare, nei casi più drammatici, nel criptico: “Vuoi la pizza, mamma?”. A un non capitolino sorge, sacrosanto, il dubbio: “Ma stai chiedendo a tuo figlio se vuole la pizza, oppure lo stai domandando alla sua nonna?” .

Alle orecchie di chi non vive a Roma suona a dir nulla assurdo che una donna chiami il proprio figlio “mamma”. Ma se osserviamo la faccenda sotto un’ottica diversa, quella secondo la quale sono i figli che ci fanno crescere, e non viceversa, forse questo strafalcione un senso ce l’ha…

Perché le mamme si esprimono in modo tanto bizzarro? Sarà forse per uniformarsi al bambinese, lingua che presenta illimitate sfaccettature, oppure è colpa del rincretinimento progressivo e inesorabile in un encefalo che abbia partorito almeno una volta nella vita? Magari un felice giorno la scienza impiegherà fondi, cervelli ed energie necessarie a chiarire questo mistero, ma francamente ne dubito.

In attesa che l’improbabile studio comportamentale trovi la giusta spiegazione, mi raccontate qual è lo sproloquio più gustoso che vi è capitato di proferire da quanto siete diventate mamme? Se l’avete sparato nel vostro dialetto, meglio ancora. Scrivetemelo pure nella vostra lingua madre con relativa traduzione in italiano, se necessaria. 

PS: l’indagine non esclude assolutamente i papà; sparare certe frallacchere non è un privilegio per sole donne. Pure gli uomini rincoglioniscono, eccome!

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20 settembre 2011 2 20 /09 /settembre /2011 23:58


Di_Terry__044

 


Prima di sposarmi vivevo a due passi da Trastevere. Per motivi di studio prima, e lavorativi poi, ho sempre bazzicato il centro storico.

Da quattordici anni ho cambiato quartiere. Dove vivo adesso, qualsiasi punto di Roma è troppo lontano. Qualsiasi… Nominatemi un luogo X della Capitale ed io, Google Maps alla mano, 9 volte su 10 vi risponderò che è dall’altra parte della città. Per raggiungerlo, devo come prima cosa ciucciarmi 15 minuti di macchina/bus per arrivare alla Stazione della Linea A, conquistare un posto sulla metro che mi risparmi dal crepare per rabdomiolisi post-traumatica, guadare un tratto non navigabile del Tevere, uccidere a morsi le pantegane e assaltare un paio di diligenze. Poscia, raggiungo il luogo X grazie ad almeno un altro mezzo pubblico e mezz’ora a piedi sotto il sole a picco/la grandine incessante/la gnagnarella gelida (variabili stagionali e/o stabilite dallo sfigometro del giorno).

Io abito geograficamente nella Capitale, ma anche a una manciata di chilometri dai Castelli Romani. Per questo chiamo casa mia Burilandia, e anche per omaggiare garbatamente i miei vicini, tutti laziali, con un affettuoso e particolare riferimento a quelli che nel 2001 hanno incendiato la bandiera giallo rossa che avevo esposto sul balcone per festeggiare lo scudetto.

E’ un buon posto dove crescere un figlio, una sorta di linea di confine fra quella che è la cosiddetta “civiltà” cittadina, isterica, convulsa e teoricamente evoluta e la più semplice vita campagnola; uno spartiacque incastrato a metà fra cinque centri commerciali e una distesa di colline verdeggianti. Sta a me scegliere se tuffarmi nel massacro di una vendita promozionale all’Ikea oppure rilassarmi al fresco dei castagni di Castel Gandolfo. Basta mettere la freccia a sinistra o a destra, e cambio mondo in un istante.

Burilandia preserva tradizioni che difficilmente si conservano negli altri quartieri romani come quella, tipicamente capitolina, che sto per raccontarvi. Il copione è sempre quello: amici, parenti, semplici curiosi si appostano alla chetichella, ridacchiando zittendosi l’un l’altro per non fare casino, un palo distrae la vittima con scuse improbabili e stiracchiatissime, l’attempato cugino ex disc jockey smanetta per montare l’impianto al buio, centra con la fronte la serranda del garage, bestemmia a mezza bocca ma poi… la musica neomelodica inizia a pompare, il cantante talentuoso attacca con un pezzo strappalacrime e lievemente kich, se no non vale.

La vittima si affaccia timidamente al balcone, simula un moto di sorpresa perché 10 a 1 se l’aspettava, porta la mano fresca di french manicure a coprire la bocca aperta per il (sincero?) stupore, saluta intenerita la piccola folla ai suoi piedi, dispensa baci e sorrisi imbarazzati alla rinfusa. Un accenno fugace di vergogna per tutta quell'attenzione inaspettata e la commozione, stavolta incontenibile, quando lui riemerge dalla ressa, le fa ciao con la manina con il volto scarlatto come il mazzo di rose che nasconde dietro la schiena. Un lampo di divertito orgoglio negli occhi di lei per quello squilibrato che ora è lì, microfonato, dolcissimo e anche un filino coglioncione, a massacrare a colpi di stecca “Ti sposerò perché” di Ramazzotti. E il bello è che la vittima quello squilibrato armonioso come una campana in fin di vita se lo sposa sul serio.

Sabato prossimo la mia amica Ilaria sarà di bianco vestita. Stasera alle 10 c’era metà quartiere in strada ad applaudirla, l’altra metà era affacciata al balcone. Superboy ha ricevuto la dispensa speciale per restare alzato fino alle 11:00, ora sono due ore che ronfa, strafelice. La vittima gli ha annunciato che sarà lui a tenerle il nastro.

“Il nastro, zia Ilaria? E che devo acconciarti i capelli?”

“No, amore. Certo che no….” ha replicato lei, accarezzandolo con la divisa d'ordinanza delle future spose: un sorriso intenso e luminoso, unico. Merce rarissima nei comuni mortali.

Che poi quel bagliore a 32 denti inizierà ad affievolirsi la decima volta in cui troverà un paio di boxer lordi sul lampadario della zona giorno non gliel’ho mica detto. Sono gradevolezze che scoprirà da sola, un gioioso passo alla volta. Goditi questo momento, Ilà, te lo dico con tutto il cuore. Ai boxer sporchi ci penserai a tempo debito. 

Nota doverosa: “Burino” è un termine dispregiativo, ma io lo utilizzo in tono bonario. E' solo in posti come Burilandia che ti accorgi quanto sia assurdo il concetto di social network. Qui gli auguri di compleanno mica te li scrivono sul wall, ma vengono a citofonarti, ti abbracciano e, se ti dice culo, oltre a un regalino magari ti portano pure i biscotti fatti in casa.

Per molti sarà un filino demodè, ma penso che qualsiasi sposa debba vivere un'esperienza come la serenata romana, anche se non ha fatto nulla di male per meritarsela :-) Sarà kitch, è vero, ma è anche tanto bello fare un girotondo in mezzo alla strada,  vecchi e bambini, attorno a una coppia di futuri sposi che si baciano sotto la Luna. In quel momento stava passando l'autobus delle 22:45 e ha quasi fatto strike. Ma prima di allora, il traffico locale si è limitato al passaggio di tre autovetture in un'ora.

Far festa tutti assieme e darsi da fare per aiutare un vicino, se occorre, è un'abitudine qui. E ti ripaga profumatamente del velo di gossip selvaggio che ricopre le casette di cortina gialla. Qui ci sono le comari, è vero, ma sono personaggi che non risparmiano alcun angolo del Pianeta. Parlano e sono vestite in modo diverso, ma sempre comari rimangono... Soltanto qui il dirimpettaio ti augura il buongiorno sperando che per te lo sia sul serio. 

La gente di Burilandia mi piace da matti, così come il quartiere. Anche se ci metto meno a raggiungere Osaka che Piazza di Spagna. 

 

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Chi Sono

  • : La Staccata
  • : Luana Troncanetti, scrittrice per caso, schiava devota dell'ironia, grafomane incallita e mamma strafelice di Alessandro, aka Superboy. Nel 2009 ho vinto il Premio Massimo Troisi per la scrittura comica e sono ancora qui a disegnare cerchietti in un angolo e a chiedermi: "Ma che s'erano pippati quelli della giuria?"
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