Il bambinese è una sorta di magico tessuto che si estende, si modifica, cresce e calza sempre a pennello il legittimo possessore. E’ una lingua unica nel
suo genere, perché nessun bimbo veste la stessa stoffa. Soltanto la mamma di un bimbo che balbetta il suono gutturale “nghà”, simile al grugnito del tasso abruzzese durante la stagione dell’accoppiamento, riesce a leggervi questo pensiero: “Orsù dunque, madre, disfati immantinentemente dello zuccotto celestino con i pupazzetti di Peppa Pig. Ritengo che
insistere oltremisura nell’infilarmelo sia ormai anacronistico: ho ben 19 mesi, quel ridicolo orpello lede la mia dignità!”
Il mammese, invece, costituisce un optional di serie gentilmente offerto dalla maternità, meno
avvilente delle emorroidi e dei seni cadenti, ma preoccupante almeno quanto la perdita di memoria a breve scadenza. A differenza del bambinese, in
genere pecca di inventiva caratterizzato com’è da autentici must come: “Mio figlio non MI mangia…”
(eccola qui, la madre del cannibale ) con variabili quali: “Mio figlio non MI dorme…”
per poi passare all’inquietante ossimoro: “Amoooreee! Corri lentamente, ché hai il filo della piantana arrotolato intorno alla gamba!”
arrivando ad un creativo: “Strilla piano, tesoro, ché se il vicino chiama di nuovo il Telefono Azzurro, stavolta non ci credono più che nessuno ti
spegne le sigarette sulle cosce” e concludendo con il surreale: “Stai fermo, vieni qui!”, frase che fulminerebbe i neuroni
anche al più equilibrato dei pargoli.
Le storpiature dialettali, poi, meritano una trattazione a parte. Eccovi una chicca tipica di chi vive all’ombra del Colosseo. La frase basica dovrebbe essere questa: “Vuoi la pizza, amore di mamma?” ma, a causa della proverbiale pigrizia linguistica dei capitolini, si trasforma in: “Vuoi la pizza, 'a mamma?” per poi sfociare, nei casi più drammatici, nel criptico: “Vuoi la pizza, mamma?”. A un non capitolino sorge, sacrosanto, il dubbio: “Ma stai chiedendo a tuo figlio se vuole la pizza, oppure lo stai domandando alla sua nonna?” .
Alle orecchie di chi non vive a Roma suona a dir nulla assurdo che una donna chiami il proprio figlio “mamma”. Ma se osserviamo la faccenda sotto un’ottica diversa, quella secondo la quale sono i figli che ci fanno crescere, e non viceversa, forse questo strafalcione un senso ce l’ha…
Perché le mamme si esprimono in modo tanto bizzarro? Sarà forse per uniformarsi al bambinese, lingua che presenta illimitate sfaccettature, oppure è colpa del rincretinimento progressivo e inesorabile in un encefalo che abbia partorito almeno una volta nella vita? Magari un felice giorno la scienza impiegherà fondi, cervelli ed energie necessarie a chiarire questo mistero, ma francamente ne dubito.
In attesa che l’improbabile studio comportamentale trovi la giusta spiegazione, mi raccontate qual è lo sproloquio più gustoso che vi è capitato di
proferire da quanto siete diventate mamme? Se l’avete sparato nel vostro dialetto, meglio ancora. Scrivetemelo pure nella vostra lingua madre con relativa traduzione in italiano, se
necessaria.
PS: l’indagine non esclude assolutamente i papà; sparare certe frallacchere non è un privilegio per sole donne. Pure gli uomini rincoglioniscono, eccome!